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NAGAHARA Makoto (NAGAHARA Makoto)
Sesso Uomo  Età nell'anno del bombardamento 17 
Data di registrazione 2005.11.29  Età nell'anno della registrazione 78 
Luogo in cui ci si trovava il giorno del bombardamento Hiroshima(Distanza dall'ipocentro:2.5km) 
Hall site Memoriale nazionale della pace di Hiroshima per le vittime della bomba atomica 
Doppiaggio/ Sottotitoli Sottotitoli 
NAGAHARA Makoto aveva 17 anni al momento del bombardamento; era studente presso la scuola superiore di Hiroshima. Il lampo che vide durante l’appello era un miscuglio di infiniti colori. Quando guardò fuori dal portone principale, lì si era formata una fila di feriti immensa. Anche i genitori subirono il bombardamento; il padre morì il giorno stesso, la madre dopo un mese.
 
 
A sud dell’edificio scolastico in legno a due piani c’era un prato: vi si trovavano 17 studenti del corso di letteratura. 17 persone in fila uno vicino all’altro, mentre il professore di Storia Occidentale Yomokuro Nakahara faceva l’appello. Me ne stavo ritto, senza muovermi, mentre i nomi venivano chiamati uno dopo l’altro. L’epicentro si trovava a 2,5 km a nord-ovest, quindi gli voltavo le spalle. Dalla parte opposta all’epicentro c’erano il cielo, la terra e davanti ai miei occhi un'altra scuola. Ogni cosa, improvvisamente, assunse uno strano colore. Questo fu l’inizio.
 
Ho detto uno strano colore ma erano tutti e nessuno: giallo, arancione, rosso, verde, azzurro. Si colorò tutto in un colpo, davanti ai miei occhi. Era l’onda termica del bombardamento. Fortunatamente, dato che alle mie spalle si trovava l’edificio scolastico in legno, questo mi fece da scudo e non venni colpito direttamente dal raggio. Invece davanti ai miei occhi tutto si tinse di un colore tenue e istintivamente indietreggiai. Tre, quattro passi all’indietro e si sentì un suono come di metallo tagliato con la sega. Il suono si avvicinava e pensavo ormai mi avesse raggiunto ma, era l’onda d’urto.
 
Era come se qualcuno mi stesse tirando per i piedi. Provai a gettarmi a terra, ma venni scaraventato via dalla forza del vento. Caduto sul prato, rimasi così fermo. Poco dopo, il suono della scuola di legno che crollava, con i suoi due piani, alle nostre spalle; quel suono rumoroso si protrasse per un po’. "Alla fine si sentì il suono dell'ultima tegola o qualcosa che cadde. E poi,  silenzio." Non capivo cosa fosse successo. Davanti ai miei occhi, a 10 cm circa, vidi un filo d'erba fremere e diventare color cenere. Poi si azzerò tutto. Come se non fosse successo niente, dopo due o tre minuti, ho sollevato il viso e fui in grado di vedere quattro, cinque metri davanti a me. Un amico abile a cavarsela in qualsiasi circostanza iniziò a scappare verso il grande rifugio antiaereo lì costruito. Anche io, non potevo attardarmi e dopo di lui entrai nel bunker.
 
Per cinque, dieci minuti non successe nulla. Quando uscimmo il cielo era già blu intenso. Non capivo cosa fosse successo. Guardandomi intorno, a sud del liceo di Hiroshima, sul terreno isolato, delle case erano disposte in fila verso la città di Minami-machi. Erano inclinate tutte di 15 gradi circa. All’inizio pensammo che fossero esplose delle bombe di grandi dimensioni nel quartiere ma non vi erano crateri. Qualcuno disse indicando il cielo: “Guardate là”. Guardando in alto, una nuvola a forma di fungo si stava allargando al centro del cielo, a nord.
 
Uscimmo dal rifugio circa cinque, no dieci minuti dopo l’onda d’urto. Si era formato come una nube che si spostava espandendosi. In quel frangente, diversi colori che non capivo, quelli visti all’inizio: rosso, blu, verde. Come se fossero stati separati, a quest’angolo o a quell’altro si illuminavano di rosa e colori diversi. Una nuvola di dubbia entità, mentre la guardavo ero esterrefatto. Non c’era nulla da fare eppure il professore ci disse di non uscire perché la difesa del campus era nostra responsabilità. Rimanemmo bloccati fino a quasi l’una, nel mezzo del campus.
 
【La fila di feriti】
Provai ad andare fino al portone d’ingresso. A sud, parecchio distante dalla scuola verso la città di Ujina-machi, c’era l'Ospedale Militare di Mutuo Soccorso di Hiroshima. Verso quell’ospedale, davanti al portone, senza sosta, c’erano letteralmente centinaia, migliaia di persone, con vestiti strappati, svestite con tutto il corpo ormai sporco di cenere, la pelle penzolante dalle ustioni, figure con la pelle penzolante, doloranti Ricordo bene: vecchi, donne, bambini. Un’altra cosa che ricordo, era il silenzio. Senza piagnucolare, tutti zitti, camminavano a casaccio verso l’ospedale militare.
 
Mentre guardavo quelle figure senza sosta, mi sentii fortunato perché i nostri vestiti non erano danneggiati. Io e il mio amico parlavamo all’unisono: “Chissà che sarà successo!” Alle 12 circa, ci fu una comunicazione: “Chi ha casa a Hiroshima, vi faccia ritorno. Sembra che la città sia stata distrutta.” Così tornai, presi delle cose e uscii. Per il momento mi recai al ponte Miyuki e feci per attraversarlo. La situazione era che la balaustra del ponte a nord era crollata da questo lato, quella a sud era caduta nel fiume. E lì, pensavo che probabilmente vi fossero corpi senza vita: c’erano figure di persone immobili.
 
Appena attraversato il ponte Miyuki sbucò fuori la polizia militare a dirmi di non entrare. “Non si riesce a entrare. Appena entrati si viene avvolti dalle fiamme”mi dissse. Dato che non c'erano alternative tornai indietro; Guardando verso nord dal ponte Miyuki, c’era infatti un grande incendio. Da Matoba-cho alla stazione di Hiroshima il ponte percorribile era ad uso esclusivo del treno; le rotaie erano bruciate e non riuscii ad attraversarlo. Non c'era altro modo che scendere fino al ponte Enko. Matoba-cho era completamente bruciata, andata tutta in cenere.
 
Attraversando il ponte Enko e guardando il fiume, fluttuavano nella corrente uno, oppure tre, quattro corpi insieme. Molti di quei corpi erano nudi, il ventre gonfio proprio come un palloncino, stavano a galla. Mi rimane fortemente impresso lo scenario di quei cadaveri fluttuanti di qua e di là. Mi ero avvicinato alla stazione di Hiroshima ma non riuscivo a entrare; feci una grande deviazione per entrare dalla Piazza d'Armi Orientale. Era indicato il luogo sicuro dove rifugiarsi in caso di bombardamento aereo: per noi abitanti di Teppo-cho era la scuola pubblica di Midorii. Avevo intenzione di andare li; ecco cosa accadde quando avevo appena attraversato il Santuario di Nigitsu. Il fiume scorreva ma guardando la riva c’era mia madre dalla parte opposta.
 
La mamma era sola a casa. Era a un passo fuori di casa, chinata e stava pulendo l’entrata della cucina quando le piombò addosso la struttura principale. Per fortuna era entrata in una intercapedine a tre angoli di una stanza inabitabile e non aveva neanche una ferita.
 
Mio padre stava andando a scuola con uno studente della Malesia dal dormitorio per gli studenti stranieri dell'Asia del sud. Era per strada quando ci fu l'esplosione. Credo che l’onda d’urto lo abbia sbalzato via così da procurargli gravi ferite. In quel momento il ponte Meiji aveva iniziato ad andare in fiamme; per quelle fiamme era morto carbonizzato. Sia mani che piedi, fino alle punte, erano diventati cenere; non poteva essere ospedalizzato. Era una figura completamente nera, di cui non si capiva neanche l'aspetto. Il giorno seguente, o quello dopo, quando gli incendi erano cessati, dalla scuola lo staff era stato impiegato temporaneamente e lo andarono a cercare. Sebbene non si riuscisse a capire neanche il volto perché era nero, pensai che fossero stati bravi a riconoscerlo. Lo cercarono rivoltando i corpi in su. L’unica cosa rimasta era la fibbia della cinghia. Mi dissero: “Per caso non è il professor NAGAHARA?” Anche noi verificammo che fosse di mio padre. E così purtroppo mio papà morì il 6 agosto.
 
Per quanto riguarda i movimenti di mio fratello minore, quando rientrai a casa per la prima volta l’8 agosto, era tutto bruciato. Ma su una tavoletta di legno rimasta, c’era un messaggio apparentemente scritto con carbone : “Sono vivo. Vado a Shiwa-hori-mura.” E il giorno dopo mamma, con le ossa di papà, andò a Shiwa.
 
Dal messaggio sulla tavoletta seppi di mio fratello, ma ancora non si sapeva niente di mia sorella. Andai a Ujina perché avevo sentito che le studentesse che lavoravano alla rimozione degli edifici crollati erano state inviate a Ninoshima. A 200 metri, su un foglio appeso, vi era scritto in inchiostro con elegante calligrafia: “A sinistra, pazienti ospedalizzati a Ninoshima”. Lì, c’era il nome di NAGAHARA Nobuko. Siccome partiva subito la chiatta dell'armeria, salii a bordo e infatti, mia sorella era stata ospedalizzata lì. La metà frontale del suo corpo era bruciata; faceva davvero pena. Dopo circa un'ora che ero lì andai a salutare il medico militare. “Le bruciature sono gravi; se tua mamma sta bene portala qui” mi disse il medico. Quel giorno stetti solo un’ora; dissi che sarei tornato l’indomani con la mamma e mi accomiatai. In verità, fu l'ultima volta che la vidi. La sottile pelle era spellata, bruciata; solo gli occhi erano straordinariamente limpidi.
 
Il giorno seguente andai a Shiwa-hori-mura e un’altra volta a Ujina accompagnando la mamma. Da quel momento sembra che dei sopravvissuti siano stati ospedalizzati uno dopo l’altro a Ninoshima, tanto da riempirlo. Era stato appeso un avviso: “I pazienti ospedalizzati a Ninoshima sono stati evacuati presso la baia di Hiroshima e lungo il litorale.” “E’ vietato attraversare in barca.” Provai a chiedere all’esercito ma mi dissero : “E’ com’è scritto. Lì non si va”. Ci credetti e andai per tutti gli angoli della baia di Hiroshima, da Tenno vicino a Kure fino a Otake-cho. C’erano un numero infinito di campi di rifugio: templi, scuole pubbliche.
 
Mia sorella era di sicuro a Ninoshima. Quando ci andai, la bambina vicino a mia sorella, al primo anno di una scuola femminile diversa dalla sua, era accudita dalla madre. Per fortuna avevo detto il nostro indirizzo di Ushita-machi a quella donna, per evenienza. Quella persona era stata così gentile da farci recapitare un messaggio su carta strappata da un pacchetto per avvolgere le bacchette. “La signorina è morta il giorno 17. Ha resistito e sopportato il dolore. Aveva l’aspetto di chi attende in segreto che venisse sua madre." Questo era scritto nel messaggio. Ah, lo sapevo, era lì. ricevetti solo quel foglio assieme ai suoi capelli. Molto tempo dopo, al posto delle ossa offrimmo i capelli alla tomba. Questo è quanto accadde a mia sorella.
 
Se posso aggiungere una cosa, a mia madre si spezzò il cuore con la morte di mia sorella e ci trasferimmo da Ushita. Era una casa di lontani parenti, si trovava a nord di Hijiyama e non si era bruciata. Ma pioveva acqua all’interno dal soffitto. Ci lasciarono dormire lì ma la mamma aveva il cuore spezzato, specie per non essere riuscita a incontrare Nobuko. Il primo settembre la mamma ebbe una febbre improvvisa: lei, che non era stata minimamente ferita, soffrì di una forma acuta di leucemia. Perse conoscenza e senza dire una parola, sdraiata, silenziosa, morì il 4 settembre.
 
【Ciò che vorrei comunicare】
Bisogna davvero far scomparire le bombe e le armi atomiche. Una volta che gli esseri umani concepiscono il nucleare, anche solo per una volta, finiscono per usarlo nel bene o nel male. Bisogna abbandonare tutte le armi atomiche per uso bellico con una decisione nazionale. Al contempo, bisogna provvedere a una struttura nazionale che controlli la conoscenza del nucleare. Sarà difficile che questo si avveri mentre sono ancora in vita. Penso che le nuove generazioni debbano prendere a cuore questo tema sin da giovanissima età.
 
Le guerre non hanno senso di esistere. Ciò che ha portato all'uso dell'atomica è stata la guerra iniziata dal Giappone. Non posso minimamente approvare il bombardamento atomico dell’America, ma è accaduto come conseguenza della guerra fatta dal Giappone. Così come non possano coesistere bombe atomiche ed esseri umani, anche la guerra non può coesistere con l’uomo. Con la guerra non si può risolvere nulla: voglio che le giovani generazioni pensino a questa chiara verità.
 
Traduzione: Veronica De Pieri
Direttore di traduzione: Simone Piredda, Mio Suzuki
Coordinatore di traduttori: NET-GTAS (Network of Translators for the Globalization of the Testimonies of Atomic Bomb Survivors)
 
 
 

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